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Elly Schlein, europarlamentare italiana di origini ticinesi non si ricandida alle prossime elezioni ma resta una convinta europeista

di Paolo Gianinazzi

LUGANO – Dopo cinque anni a Bruxelles l’eurodeputata italiana Elly Schlein, nata e cresciuta in Ticino, ha annunciato negli scorsi giorni che non si ricandiderà alle prossime elezioni europee che si terranno a fine maggio. Giunta in Svizzera proprio ieri dopo il rientro da Strasburgo è venuta a trovarci a Muzzano, dove ci ha spiegato la sua scelta e come ha vissuto questi «straordinari ma difficilissimi» cinque anni all’Europarlamento.

 Dopo cinque anni a Bruxelles, pochi giorni fa ha annunciato che non si ricandiderà al Parlamento europeo. Come è nata questa scelta?

«È stata una scelta difficile, maturata nelle ultime settimane. In cinque anni a Bruxelles ho capito che per rispondere a questa “internazionale sovranista” che avanza in diversi Paesi, è necessario un fronte progressista ed ecologista unito, a livello europeo e globale. Ci sono delle forti assonanze tra le battaglie che facciamo noi e che fanno i verdi europei, oppure i socialisti in Portogallo e Bernie Sanders negli USA, ad esempio. Però, mentre i partiti dell’internazionale sovranista riescono a rafforzarsi a vicenda, noi dall’altra parte non riusciamo a dare corpo a questo fronte. Rimaniamo divisi. Ho lavorato dieci mesi in Italia cercando di unire questo “terzo spazio”, ma non ci sono riuscita. I partiti si presenteranno quindi frammentati e da qui è nata la mia sofferta decisione di non ricandidarmi».

Ma cos’è, in sostanza, questo terzo spazio di cui parla?
«In parole povere, è quello spazio che sta fra Macron e Melenchon, non compresi. Uno spazio che deve unire tutte quelle forze politiche progressiste che combattono le politiche di austerità portate avanti in questi anni, che non condivide il ritorno al nazionalismo e che condivide invece la lotta al cambiamento climatico e all’evasione delle grandi multinazionali. Sono convinta che questo spazio esista già: lo abbiamo visto nelle piazze strapiene per temi come quello ecologico o per i diritti delle donne».

Lasciamo un attimo da parte i temi caldi della politica internazionale. Da un punto di vista più personale, cosa le rimane di questa esperienza al Parlamento europeo?
«Un’esperienza straordinaria e difficilissima. Fare questo mestiere con dedizione richiede tanto. Quello dell’europarlamentare è un lavoro complesso anche perché bisogna fare da ponte tra due realtà che si parlano troppo poco: il proprio Stato membro, nel mio caso l’Italia, e Bruxelles. Non sono mai stata un sabato a Bruxelles: tutti i fine settimana sono rientrata in Italia per parlare con le persone e cercare di accorciare le distanze percepite tra i cittadini e le istituzioni europee».

Da sempre le elezioni europee si basano su campagne elettorali nazionalizzate. Lei crede nella soluzione delle liste transnazionali? Oppure ci sono altre soluzioni?
«È una questione cruciale. Come detto spesso torno in Italia per parlare con la gente e raccontare cosa fa l’Europarlamento. Chiedo sempre alla gente se è a conoscenza di ciò che abbiamo fatto per la riforma di Dublino. Su cento persone se si alzano cinque mani è tanto. E il problema è che oggi le grandi sfide come l’immigrazione e il cambiamento climatico sono affrontabili solo sul piano europeo, mentre tutti si ostinano a gestirle sul piano nazionale. Per questo le liste transnazionali sono un’occasione persa. Ma manca proprio una buona comunicazione per spiegare cosa l’Unione fa per i suoi cittadini. Poi sul piano sociale, secondo me l’UE avrebbe bisogno di un nuovo green-new-deal per rilanciare l’economia e diminuire le diseguaglianze. Più in generale per ovviare al problema delle campagne elettorali nazionalizzate serviranno partiti più europei, che facciano delle lotte sul piano europeo».

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Cinque anni fa, dopo essere entrata in Parlamento per il PD, ha deciso di passare a “Possibile”. Anche lei quindi è stata divisiva a suo tempo. Ha poi capito che invece è necessario unire e non dividere?
«In realtà la necessità è quella di unire, ma in maniera coerente. Il punto non è unire tutto e il contrario di tutto. Non mi convincono gli appelli generici a tutti gli europeisti di stare uniti contro la minaccia sovranista. Posso anche essere d’accordo su alcuni temi con Emmanuel Macron, non posso però farci un partito insieme. Non sarebbe un’operazione di chiarezza verso gli elettori. Dal punto di vista delle risposte da dare alle diseguaglianze economiche in aumento siamo agli antipodi. Possiamo trovare un compromesso su alcune riforme importanti per il futuro dell’Unione, ma di certo non fare parte della stessa famiglia politica. Quando sono andata via dal PD l’ho fatto perché il partito aveva preso una direzione diversa rispetto alle promesse che aveva fatto gli elettori».

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